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Il bianco è in scena

Di Rita Lombardi.
Il bianco è un colore?
Per i nostri antenati non vi erano dubbi: il bianco era un vero colore, addirittura uno dei colori basilari del sistema antico, insieme al rosso e al nero. Nelle società antiche era non-colore tutto ciò che non conteneva pigmenti e quindi il colore base del supporto, grigio od ocra della pietra e della terracotta, grezzo per il filato naturale e la tavola di legno, beige per la pergamena, etc. Soltanto quando la carta è diventata il supporto principale dei testi e delle immagini, e quindi, dato per “scontato”, è nata l’equivalenza tra bianco e non-colore. Ma il bianco è un colore a tutti gli effetti.
Nel 1600 Newton dimostra che la luce bianca, fatta passare attraverso un prisma, si scompone in tutti i colori dell’arcobaleno. Oggi sappiamo che la luce bianca contiene energia in regioni diverse dello spettro elettromagnetico più o meno nelle stesse quantità. Un oggetto, quindi, appare bianco quando la luce bianca che lo illumina viene tutta riflessa da questo, mentre appare nero quando tutto lo spettro viene assorbito, ma, se una parte viene assorbita ed una parte viene riflessa, l’oggetto appare del colore della luce riflessa, ad esempio, un pomodoro appare rosso perché assorbe gran parte delle componenti blu e verde dello spettro, riflettendo soprattutto quella rossa.
fig 1






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Nell’antichità gli unici pigmenti disponibili per ottenere il colore bianco erano il bianco di piombo, o “biacca” e il “bianco di San Giovanni”, un carbonato di calcio. La biacca è un pigmento molto coprente che però tende a scurire nel tempo diventando marrone, ma, usato nella tecnica ad olio ed evitando miscele contenenti zolfo, garantisce stabilità. Non viene usata negli affreschi e nelle tempere perché non si mescola in modo omogeneo nell’acqua, oltre al fatto che, in mancanza, di medium oleosi, quel bianco diverrebbe in poco tempo marrone. La biacca, essendo un carbonato basico di piombo, è un pigmento tossico, come tutti i composti a base di piombo. Contiene un residuo radioattivo che scompare in circa 160 anni, permettendo, così, di datare i quadri antichi.
Per secoli, dall’Antico Egitto e fino al 1700 la biacca entrava nella composizione del belletto per le donne e per gli attori, in quanto permetteva di ottenere una carnagione diafana e luminosa con danni, però, irreversibili: pelle rovinata, pazzia, sterilità, fino alla morte. Nel 1840 viene sintetizzato il “bianco di zinco”, poco coprente e nel 1930 il “bianco di titanio”, molto coprente, oggi il più usato, mentre la biacca è quasi scomparsa. Quando sono stata nella stanza della Segnatura in Vaticano, del gigantesco affresco (5x7,70 metri) “La Scuola di Atene” dipinto da Raffaello Sanzio mi ha colpito soprattutto il bianco dell’immaginario edificio classico e delle toghe perché occupa più della metà dell’intera superficie affrescata. Tutto quel bianco che mi avvolgeva e dava luce all’intera stanza mi è apparso come il vero protagonista dell’opera, simbolo della luce dell’intelligenza, della saggezza e della conoscenza che tutti i filosofi raffigurati hanno accolto e manifestato.
Nel secolo scorso con il neoplasticismo di Mondrian e Vantongerloo il bianco irrompe sulla scena e il rosso, il giallo, il blu e il nero sono relegati nel ruolo di comparse. In fig. 2 un quadro di Piet Mondrian.
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fig. 2




I MONOLOGHI DEL BIANCO di Malevic, Morellet e Savelli.

La rivoluzione russa è appena iniziata e Kasimir Malevic (1878 - 1935) opera la sua personale rivoluzione con “La composizione suprematista bianca su bianco” (fig.3) del 1918, ora al MoMA di New York.
Su una tela quadrata bianca campeggia un quadrato anch’esso bianco, posto in posizione instabile, ed è tale da generare nell’osservatore la sensazione che esso si muova venendogli incontro. Con quest’opera Malevic raggiunge vertici di definitiva assolutezza, un punto estremo oltre il quale non può procedere.
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Egli scrive: “Il quadrato porta il mondo bianco affermando il segno della purezza della vita creatrice dell’uomo”. Malevic è un’astrattista e per lui approdare all’astrazione significa operare una selezione di forme universali ed incorruttibili prive di agganci con la realtà, dove il colore, per esprimere l’astrazione, deve essere steso in maniera piatta ed omogenea senza passaggi tonali. Malevic stabilisce, così, i principi cardine di tutta la futura astrazione geometrica. Ed il quadrato, archetipo essenziale, diventa la porta di accesso alla parte più profonda dell’essere umano, elemento di un nuovo linguaggio universale da opporre alla irrazionalità dell’istinto e del sogno.
Malevic è, infatti, alla ricerca di una nuova immagine del mondo, perché così come è, il mondo, è rovinato ed appiattito dal materialismo.
La sensazione che comunica l’opera è quella di una spessa coltre di neve che copre ogni cosa: bruttezza e bellezza, ricchezza e povertà. Ma la neve è destinata, in primavera, a sciogliersi, scivolando giù come il quadrato e rivelando un mondo pulito e rigenerato, come quello che, si sperava, sarebbe sorto dopo la rivoluzione appena scoppiata. L’utopia di un artista visionario! Ma per capire Malevic bisogna conoscere il suo lato profondamente mistico. Fin dai primi anni del XX secolo Malevic entra in contatto con la teosofia e poi con gli scritti di Pyotr Ouspensky studioso dell’esoterismo di George Ivanovitch Gurdjieff (vedi nota) di cui diffonde le idee specialmente nel libro “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”. Purtroppo lo Stalinismo impedisce a Malevic di sviluppare la sua ricerca spirituale e il suo rivoluzionario stile pittorico.
È il francese François Morellet (1926- 2016) a raccogliere il testimone di Malevic, portando avanti sia la sua ricerca spirituale che il suprematismo. E un sotterraneo filo “russo” collega Malevic a Morellet, che nel 1948 si diploma in russo e si avvicina alla filosofia di Gurdjieff. Legge “Frammenti di un insegnamento sconosciuto” di Ouspensky. Lo affascina la prosa esoterico-iniziatica, i riferimenti all’Oriente. Dirà poi: “Ciò che mi interessava era l’idea del controllo del corpo e della mente, l’idea di trascendere sé stessi”. Dopo qualche anno abbandonerà la filosofia e gli esercizi di Gurdjieff, ma l’aura dei valori orientali rimarrà per sempre in lui. Si avvicinerà successivamente alla Meditazione Zen. Nel 1950 scopre l’artista svizzero Max Bill e l’arte concreta. Da questo momento in poi il suo vocabolario si fonderà sul quadrato, una struttura elementare che gli permette infinite variazioni. Nel 1960 entra a far parte del GRAV, gruppo di arti visuali. Successivamente si ispira ai numeri casuali e sperimenterà le installazioni con tubi al neon. Più tardi Morellet dirà: “Dell’esperienza degli anni cinquanta-sessanta ho conservato una grande fedeltà alla logica, alla precisione e alla geometria, tutto ciò mi ha permesso di prendere le distanze dai miei umori, i miei fantasmi, i miei drammi”.
fig.4








fig. 4



In fig. 4 un’opera del 1987, Steel Life n. 3, parte di un ciclo. è ancora un quadrato completamente bianco in equilibrio instabile con una cornice che diventa ricciolo e blocca il suo scivolare verso il basso. è un’opera che non offre appigli alla mente, né connessioni culturali. è lì nella sua estrema purezza e semplicità. Pare dire all’osservatore: “Accetta il mondo così come è, non avere aspettativa, rabbia, nostalgie, rimpianti, accetta il presente, non rifiutarlo in nome di un passato che non è più e di un futuro che non è ancora. Sei qui ed ora”. Le tecniche di Gurdjieff, la Meditazione Zen, la logica, la matematica sono tutte parte dell’uomo Morellet e sono in tutte le sue opere, da contemplare in silenzio.
E contemplazione è il termine che ci conduce ad Angelo Savelli.
Angelo Savelli (1911-1995), conosciuto come Maestro del Bianco, nel 1934 consegue il brevetto di pilota e 2 anni dopo si diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma. Combatte nella Seconda Guerra Mondiale. Al 1950 risalgono le prime opere astratte e 7 anni dopo Savelli approda “al periodo bianco”, la sua fase più celebre. Da questo momento elimina dalla tavolozza qualsiasi colore all’infuori del bianco che diventerà, quindi, per quasi quattro decenni, il mezzo attraverso il quale esprime la sua astrazione. Scrive Savelli: “ci sono due forme di spazialità, quella reale e terrena di Fontana e quella mia che definirei eterica”. Nel 1962 è chiamato ad insegnare nel Dipartimento di Belle Arti dell’Università di Philadelphia. A sua volta Savelli chiama ad insegnare Dorazio e in breve tempo il Dipartimento diventerà la migliore Scuola d’Arte degli U.S.A.
Pratica quotidianamente l’hatha yoga - ha iniziato nel 1947 - e la meditazione Zen e grazie a queste pratiche riesce a superare i gravi disturbi fisici che lo affliggono. Savelli usa corde, gessi, veli e tulle, modifica le forme, innalzando il bianco ad unico colore, perché puro, luminoso ed assoluto. è un astrattista che, elaborando un’arte monocromatica, realizza opere di estrema rarefazione e pulizia formale, libere da qualsiasi riferimento figurativo ma anche dalle forme geometriche, pura espressione della sua necessità interiore di raggiungere la semplicità universale. Questa necessità, insieme al rigore formale, trovano, secondo me, ispirazione nella sua lunga pratica dell’hatha yoga e della Meditazione Zen. Penso che in molte sue opere protagonista sia la colonna vertebrale, pilastro del corpo e fulcro della vita fisica e psichica dell’uomo, nonché tema centrale della pratica delle asana, come ad esempio per la scultura in fig. 5.
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fig. 5



A proposito dell’opera in Fig. 6 “Love letter to a figure point” Savelli scrive: “…sentii che io stesso ero diventato spazio”. L’unico elemento posto sulla tela bianca di 90 x 70 cm occupa meno del 5% di tutta la superficie e si trova sulla mediana verso l’estrema periferia di destra dell’osservatore. La tela è sostanzialmente vuota come la nuda parete bianca davanti alla quale il praticante Zen resta a lungo, nel più assoluto silenzio, con l’unica compagnia del proprio respiro, mentre nella sua mente i pensieri galoppano furiosi, fino a quando, dopo molto tempo e molta pratica, non trovando attenzione, si dileguano donando pace e appagamento. Savelli ci comunica l’importanza di essere centrati e l’esperienza che ha fatto della piena consapevolezza dell’essere che è vuoto ed è infinito, un paradosso che ritroviamo, non a caso, nei testi esoterici dell’estremo Oriente. è una conoscenza che arriva, però, soltanto dopo una continua e paziente pratica, con un lungo percorso, per questo Savelli pone il piccolo-grande punto nella periferia di destra. Il critico d’arte Alberto Fiz ha scritto: “L’arte di Savelli presenta un carattere sacro, è sacra perché reca in sé un messaggio trascendente, una dimensione spirituale”.
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CONCLUSIONI

Il bianco assoluto scelto da questi artisti è il colore che ci libera dal dogma, dal peccato e dalla colpa; non ci sono dei, né punizioni, solo pura esistenza consapevole, pura pace. Ritengo Mondrian, Malevic, Morellet e Savelli ricercatori spirituali, quasi maestri spirituali, che hanno tentato di trasmettere nelle loro opere, che sono espressioni di una religiosità nuova, l’infinito che ci abita. Contemplandole, anche in fotografia, possiamo accogliere, per osmosi, queste conoscenze nate dalla loro esperienza. A loro dedico questa frase del cantautore Franco Battiato: “Per toccare alte vette di spiritualità si deve togliere, sottrarre, sfiorando così la musicale eloquenza del silenzio, anticamera del Divino”. Ma è l’uomo, prima che l’artista, che deve togliere, sottrarre da sé stesso, ammaestrando il corpo alla immobilità, la mente al silenzio e trascendendo le proprie emozioni.
NOTA
George I. Gurdjieff di origine greco-armena, nato nell’Armenia Russa forse nel 1872, è stato filosofo, mistico, maestro di danze armene. Ha formato un primo gruppo a Mosca nel 1912 e un secondo a San Pietroburgo nel 1913. Nel 1920, per sfuggire alla Rivoluzione Russa si trasferisce a Costantinopoli e nel 1922 a Parigi. Muore in Francia nel 1949. I suoi insegnamenti che combinano Cristianesimo, Buddhismo e Sufismo (in particolare le danze dei dervisci) si diffondono in tutta Europa e negli Stati Uniti d’America. Nucleo del suo insegnamento è la convinzione che la maggior parte degli esseri umani vivano come sonnambuli rispondendo meccanicamente agli stimoli esterni e a tutto ciò che accade loro. Gurdjieff sostiene che solo con la continua e costante consapevolezza e studiando i principi di questo automatismo ci si può risvegliare. Egli guarda alle tradizioni esoteriche orientali ed occidentali per elaborare tecniche ed esercizi che consentano di superare questi automatismi, che sono psicologici ed esistenziali, al fine di ottenere un livello superiore di vitalità. Questo complesso di tecniche ed esercizi, tenuto segreto, viene ancora oggi impartito non tramite libri, ma da discepoli qualificati.
Fra i suoi discepoli italiani il cantautore Franco Battiato, Gian Roberto Casaleggio e la cantante Alice.