Stampa questa pagina

Riflessioni artistiche poetiche

Orfeo e l’artefice.

Di Roberta Frabetti.

Non aveva mai indugiato nei piaceri della memoria. Le impressioni scivolavano su di lui, momentanee e vivide… conosceva il terrore, ma anche la collera ed il coraggio… A poco a poco il bell’universo lo abbandonò; un’ostinata nebbia gli cancellò le linee della mano, la notte si spopolò di stelle e la terra era insicura sotto i suoi piedi. Tutto si allontanava e si confondeva. Quando si accorse che non poteva più vedere, gridò. Giorni e notti trascorsero sulla disperazione della sua carne, ma una mattina si svegliò, osservò le cose indistinte che gli stavano intorno ed inspiegabilmente sentì, come chi riconosce una musica o una voce, che tutto questo gli era già successo… Allora discese nella sua memoria e gli parve interminabile, e da quella vertigine riuscì ad estrarre il ricordo perduto che brillò… forse perché non lo aveva mai osservato, tranne forse in sogno. Con quale stupore comprese. In questa notte dei suoi occhi mortali in cui stava scendendo, ancora una volta lo attendevano l’amore ed il rischio… Era suo destino cantare e lasciare concavemente ri- sonante nella memoria umana ciò che aveva veduto…” J. L. Borges ritrae un artefice viscerale e visionario: creando il mondo comprime il tempo, aderisce vibrando ai meandri dell’anima.
Il corpo è squassato da riflussi emotivi che sorgono improvvisi come magma, e lo lacerano aprendo in esso peripli vertiginosi. Ma non è caro agli Dei, non ha mai indugiato nei piaceri della memoria.
E così un tiepido, ostinato oblìo cancella come nebbia sinuosa la mappa del destino a lui concesso, la rotta dei suoi giorni: tutto fugge al suo sguardo come spinto da soffio di ninfa e si confonde attratto in lontananza, o forse in profondità.
Giunge al limite, nel buio. E grida, l’artefice, grida l’indistinto, il senza nome: fluttuando grida l’eco di istanti ciechi.
Poi si ferma, ascolta il repentino silenzio: il rischio che tutto, adesso, scompaia. Anche lui stesso. Folate murmuri e ronzio, la paura che ghermisce e trascina dentro il tempo ripiegato, la paura che rende naufraghi, accartocciati, implosi. (Fig. 1)
Sta rinchiuso in sé come intriso di rugiada, alla fine della notte; voci sommesse lo avvolgono e vibrando leggere gli paiono piume, sussurrano schiocchi di canne, sibili e lugubri rombi di tempesta che risuonano nel buio fin quando all’ultimo, all’estremo, è un solitario schianto.
è sospeso, immobile. Si ripete il suo sentore e gli attimi indistinti sono già lame di luce, ne riconosce i suoni, ne respira la vertigine: li vede, li canta. Li traccia nel vuoto.
L’artefice intuisce, d’ improvviso: ogni istante è nostalgia.
E il suo volto muta i tratti.
rif art 2



















Quale divino cenno concede all’artefice nuovo slancio creatore?
Una voce, un canto strano lo cattura: si abbandona al buio, attratto da una forza senza nome che lo rende un grumo, un seme di tempo che al tempo ritorna.
“Il ricordare non escluda i sensi ma li esalti nuovi, come pozzi in cui la luce della luna diviene, nel buio, misura ai giorni.”
è Orfeo a parlare, colui che al buio cercò il volto del suo amore che, debole, rimase ombra. Ma il tempo che tutto attrae, quel seme di infinito che radica nell’anima e la conforma a sé, quel punto luminoso che a tutto è origine, cercava aspetto nell’effimero. Cercava ascolto e chiedeva segni, nuovi orizzonti allo sguardo. Orfeo sapeva.
Orfeo il trace (Fig. 2) che si insinuò nella risonante gola di Rodope come in una scoscesa ferita, discese nel buio di Angeli memori di vita divina e ne riportò all’uomo gli interdetti segni: confluenze di eterno ed effimero, mappature originarie e scandite dai passi ormai lievi della sposa amata che lui guardò, violando il tempo.
L’artefice lo vede, lo ricorda:
“…vagano per quella terra, mute vene d’argento. Il sangue che affluisce agli uomini sorge tra radici e in quel buio sgorga greve come porfido. Vi sono rocce, boschi spettrali. Ponti sopra il vuoto e quello stagno grande, grigio, cieco che incombe sul suo letto, remoto come cielo. Un manto oscuro, l’uomo snello muto e impaziente, gli occhi tesi in avanti. Il suo passo ingoia il pensiero a grandi morsi, senza masticare...”
E vede l’artefice quelle ali nel buio, dice a sé stesso: “...se anche un Angelo, a un tratto, mi stringesse al suo cuore, la sua essenza più forte mi farebbe morire: perché il Bello non è che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora perché esso, calmo, sdegna distruggerci...”
Orfeo, sguardo che attraversa il labirinto congiungendone gli estremi nella danza, Orfeo che amò Dioniso e come Dioniso visse e morì, Orfeo caro ad Apollo, Orfeo Argonauta che nella fresca luce della luna ascoltò il pianto delle foglie argentate lungo l’Eridano, lo sguardo al fumo greve del carro splendente rovinato a terra.
Orfeo che vinse le Sirene alate (Fig. 3), rubò le melodie d’incanto e le trascrisse in immortali accordi: ecco i nomi, i semi donati all’uomo che chiamano a sé gli esseri.
All’uomo... all’uomo, ripete l’artefice: all’uomo cui spetta trasformarli con nuovi occhi, all’uomo che li guarda tutt’intorno e li vede svaporare come montagne, sprofondare trascinati dal loro futile peso in un baratro senza fine...
“E queste cose - pensa - che vivon di morire, lo sanno che tu le celebri, passano ma ci credono capaci di salvarle, noi che siamo più fugaci di tutto.
Vogliono essere trasformate entro il nostro invisibile cuore, in noi!...”
Lo acceca in quel cielo un bagliore:
“Non dimenticare! In verità noi vivendo moriamo: che sia il vivere morire e il morire, invece, vivere? Ogni anima che avrà visto oggetti veri sarà immune dal dolore sino al tempo seguente, senza danno... Ma se chiude gli occhi al buio, sarà vittima di oblio”.
rif art1





















All’ultimo, all’estremo, un solitario schianto.
Siamo alla fine del 1923, Rainer Maria Rilke ha compiuto la sua ricerca nello spazio interiore del mondo. Affetto da forte depressione, febbri, allucinazioni, spesso gli compare davanti una forma indistinta che aumentava di volume, nutrendosi del suo sangue. La vedeva nei momenti di terrore o di gioia intensa. La vide anche nell’ospedale Salpetriere di Parigi, dove attendeva di essere visitato al Pronto Soccorso. Registra una crisi e vi scorge “un mutamento improvviso o improvvisamente divenuto determinante nella secrezione interna, inibizioni nell’organismo o modificazioni durature o irreversibili. Un urto avvertito fino nel midollo delle ossa.”
Una leucemia mieloide cronica diviene la sua Euridice e lo tiene nel doppio regno tra i vivi e i morti, trasformandolo in figura orfica.
“Esiste veramente il tempo, il Distruttore?
Quando, sul monte immobile, abbatterà la fortezza?
Quando il Demiurgo espugnerà questo cuore che all’infinito appartiene agli Dei? “
Muore il 29 Dicembre 1926, in sanatorio, dopo grandi sofferenze.