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Stefania Cappelletti: anima pittrice.

Di Giorgio Barassi.
"Non fa molta differenza come la pittura viene applicata
fintanto che qualcosa viene detto.
La tecnica è solo un mezzo
per arrivare a una dichiarazione."

(Jackson Pollock)

È proprio dall’anima, o forse dall’istinto rivolto all’ esprimersi, che nasce la pittura di Stefania Cappelletti.
La fretta del raccontare, il bisogno di farlo con la pittura, la passione innata e la ricerca sono gli ingredienti di una maniera di dipingere che oggi non accetta i limiti del passato, non si lascia segregare in spazi preordinati e definisce invece la smania del racconto pittorico esplosivo, una specie di pittura dinamitarda e fragorosa che è sunto di quanto accaduto nelle precedenti esperienze, e non semplice viraggio verso altri lidi.
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È infatti malcostume di qualcuno dichiararsi “informale” o “astrattista” dopo aver capito che le precedenti esperienze vissute non hanno aggiunto spiccioli alle tasche. Succede. E invece per Stefania Cappelletti l’approdo a quello che sbrigativamente chiamiamo informale è una evoluzione, una meta che non compromette un ulteriore evoluzione. Autodidatta, si. Ma con coscienza. Appassionata narratrice del paesaggio urbano, sia quello della sua Spoleto sia quello più complesso di una New York degli angoli più singolari, Stefania dedica molti anni ad espandere, diluire, amplificare gli interventi tecnici sugli sfondi e le periferie delle sue opere, dando ai cieli della Grande Mela solarità inconsuete o velando di antica malinconia le vedute della sua Spoleto. Era l’esigenza della ricerca di un tratto distintivo, di una nota che evitasse la classificazione sommaria e che desse qualcosa di più particolare all’arte antichissima di dipingere quanto si ha attorno.
In verità, la passione di Stefania Cappelletti per le vedute cittadine è stato il suo primo amore, perché le prime tele, realizzate en plein air, raccontano la dolcezza della campagna umbra e le vedute urbane ma già recano i segni di una considerazione differente, personale, elaborata, per qualcuno a tinte fosche. Per molti, e questo conta, gradevoli. Operazioni artistiche che poi trovano collocazione nelle vedute metropolitane, fascinose ed eleganti nella loro singolarità. Questo è accaduto nel tempo delle opere che erano contemporanee agli studi sui grandi classici, alle esperienze a contatto con i pittori ed i critici che sono stati determinanti per la sua formazione. Allora, Stefania non avrebbe mai pensato di vincere tre volte il Premio Spoletofestival. Eppure così fu.
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Una fase evolutiva comincia invece, negli ultimi anni, a diventare padrona dell’area intera del quadro, solenni tavole di legno che accolgono autentiche esplosioni creative, grumi di materia che si espande in tutte le direzioni, dalle policromie gradevoli. È come se avesse preso quello che circondava le sue vedute urbane facendolo diventare protagonista, spostando cioè la periferia dell’opera al centro. La storia stessa della Pittura racconta chiaramente quan- to sia stato importante per i grandi artisti impostare sfondi, collocare figure e vedute su spazi di cui non tutti si accorgono.
E così quelle rugginose gocce acidule che sembravano provenire dall’asfalto newyorkese, quelle tinte stemperate dalle mura delle vedute di Spoleto hanno preso corpo, vigore, energia. Sono praticamente cresciute, come l’esigenza di fare la voce grossa, di farsi sentire meglio. E ne restituiscono il valore fisico nelle opere recenti, in cui il colore deciso la fa da protagonista e la massa centrale sembra aver raccolto tutto quel pregresso per farne una allegra squadra vincente, un botto improvviso e chiaramente avvertibile che giganteggia non solo nei dipinti di grande dimensione, ma fa sentire la sua voce netta anche nella serie “i piccolini” che, vista la misura, tanto piccolini poi non sono.
L’esigenza rimane dunque la stessa delle prime esperienze, quelle in cui la formazione fu sicuramente determinante ma soprattutto valse la voglia di esprimersi senza i limiti, i timori e il confinamento obbligato dal “…si fa così”.
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Eppure di quei limiti il segno rimane. Sopra e sotto le sue opere, a volte di lato, vivono indisturbate linee nere, incrociate con maestria, che indicano i tabù, le convinzioni, le idee preconcette e i dettami. Presenti si, ma innegabilmente sconfitti da una capacità di enunciazione pittorica convincente e senza esagerazioni, ben piantata sull’accoppiata tra colori gradevoli, mai banali, sempre lavorati ad hoc. È come dire ai limiti che non saranno mai il confine su cui sostare. Anzi, è da lì che si avanza, senza esitazione.
Daniele Radini Tedeschi, Vittorio Sgarbi, Paolo Levi, Achille Bonito Oliva fra i nomi che hanno osservato il suo lavoro. La Triennale di Roma, Spoleto Arte Sgarbi, Spoleto Arte incontra Venezia e il premio alla carriera a Firenze nel 2019 alcuni elementi del suo già ricco palmarès.
Ma quello che per noi più conta, e lo si è visto dalle battute di esordio della Cappelletti fra i pittori di Laboratorio Acca, è l’apprezzamento, la conquista operata dai suoi lavori, diremmo una “popolarità immediata”, un gradimento certo che ha ormai fatto riconoscere in breve tempo i suoi lavori dal pubblico televisivo, sempre particolarmente accorto.
E di tivù, Stefania aveva già colpito. La interminabile fiction RAI “Don Matteo” reca le sue opere tra le scenografie di molte riprese in diversi anni. Gradevolezza, buon gusto, conquiste a largo raggio.
Non semplice, per chi, da artista pura e motivata come Stefania Cappelletti, propone una pittura che sa di contemporaneità, non nega le somme lezioni del passato e legge lo spartito del bel dipingere nella chiave più difficile, quella della materia e del colore. Magie non concesse a tutti. Certezze di una concretezza di valori e concetti espressi con coerenza e vitalità.