Ma guarda un Pop

di Giorgio Barassi
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Non è facile essere, con coerenza e costanza, testimone di un tempo che non si è vissuto. Eppure sembra che Eolo Tripassi sia stato oggi e davvero a cavalcioni di una Honda 750 four, capelli al vento, magari con un foulard legato a cravatta e i Levi’s scampanati a rischiare la bruciatura accanto alla testata e al tubo di scappamento, mentre una lei riccioluta gli spinge i seni contro la schiena ad ogni cambiata. Pare proprio che abbia dato una sonora sgommata da una vecchia Duetto in una di quelle vie di Roma che oggi si percorrono a piedi, fatte le italiche e ricorrenti eccezioni. Avremmo potuto immaginarlo altrove, nel panorama degli anni 70, coacervo di bellezza, contestazioni e sangue. Ma Tripassi non fa sconti. Il suo dipingere arriva come una frustata, si fa largo tra la consuetudine e i remake che hanno molto di nostalgico e pure tanto di banale. Realizza una pittura evocativa ma vista con un occhio tanto garbato quanto accorto. Invoca, richiama, rilegge e dipinge come fosse lì ed allora, senza che noi ci si perda nel trito meandro del “ somiglia a…”.
Questa sua sfacciataggine è figlia di una profonda conoscenza, oltre che di una attenzione alle tinte da cui emerge anche un umano distacco, perché il pittore non diventi prigioniero della sua pittura ma la usi come imbattibile arma, possedendone i segreti. Da quella conoscenza, mai rinnegata e sempre rinfoltita attraverso racconti, osservazioni, opere che gli passano tra le mani, collezioni di antichi amici e giovani neofiti, arrivano figure e modi che allora sottolinearono una importante frattura sociale e oggi vengono richiamate al tempo come fossero (e in molti casi sono) più attuali dell’asfittico attuale.
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Guardando il corpus dei suoi lavori riemerge un dato a cui si fa caso solo dopo dettagliata osservazione: i suoi dipinti fanno riemergere il bel volto di un epoca restrittivamente definita “Pop”, ma che in realtà ha gettato le basi su cui si è appoggiata fin troppo la pittura e la non-pittura dei decenni seguenti. A questa seconda caratteristica di quella fase artistica, Tripassi tiene di più. Se, come Giovan Battista Marino reclamava quattrocento anni fa “è del poeta il fin la meraviglia…” , ciò vale anche per l’artista, il cui merito primario è quello di destare la meraviglia, riuscendoci o meno. In questo, Tripassi riesce senza sforzi, perché le carte da pacchi (che evocano Schifano senza scimmiottarlo) i profili umani senza volto (e qui è chiamato in causa il Mambor migliore) e molte altre impostazioni delle sue opere hanno nella narrazione singolare e nella unicità espressiva l’elemento che le rende gradite come fossero uscite oggi da un pennello di quella genìa di artisti che alla opinione e conoscenza comune sono pochi, ma che in realtà erano di più e avrebbero potuto maggiormente raccontare la loro arte se questa nazione non fosse avvinghiata da una bigottaggine di pensiero diffusa quanto biasimabile.
In tempi attuali, vedere le sue opere è come rivedere “Malizia” o “Peccato veniale”, con una maturità che permette di accorgersi di una completezza e di una efficacia che all’epoca, ammantate dalla soverchia bellezza della Antonelli, ci sfuggirono in nome di uno sguardo attento ad altro, per ragioni naturali e condivisibili. Ci si può rileggere gli ultimi film in bianco e nero, la faccia dolce di Katiuscia o quella da bel duro di Franco Gasparri, un Cremino o una 124 sport, purché si badi alla intima forza dell’andare di una pittura si evocativa, ma spostata nel contemporaneo da una spinta introspettiva piena di confronti con l’altro, di richiami alla riflessione, di dichiarazioni sul sociale che spesso campeggiano in scritte verticali come quelle dei bar di allora.
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Tripassi ha dunque dato corpo alle ombre della Pop Art italiana. Non ha pescato solo dal repertorio di “quei tre” di Piazza del Popolo, ma pare far riemergere, nella struttura e nella operazione artistica nuda e cruda, quella folta schiera di artisti che avrebbero potuto (e in parte ci sono riusciti) dire la loro. È come se rivendicasse la poetica di Pascali, Fioroni, Tacchi, Lombardo, Lo Savio, Kounellis, Maselli ed altri di cui può sfuggire il nome ma mai l’importanza. Eolo Tripassi ne rivendica l’esistenza sferrando i suoi colpi migliori, che sono come un grido di vendetta a favore di una autentica epopea, addormentata agli occhi dei più per ragioni diverse, commerciali e di malcostume. Fa sempre più comodo, al pub- blico, ricordare poco e pochi nomi. Quelli che avevano fatto veramente chiasso allora sono spariti dalle citazioni di maniera e riaffiorano prepotenti nelle costruzioni Pop di questo artista dall’animo gentile, come dicono i suoi azzurri moderati e sognanti, ma senza anemici sfumati di smalto o afflittivi scuri troppo autoreferenziali o di mera protesta.
Impegnato, tra l’altro, nel progetto CalifArte, lui che di Califano fu amico e confidente, esalta le doti introspettive e fa sfavillare di introspezione e garbato racconto le opere dedicate alle canzoni del Maestro. Il sentimento non manca mai, figuriamoci quando si parla dell’amico Poeta.
È come se quella valanga di idee, a molti ignote, filtrate da una lente da osservatore acuto e paziente, si dipanasse in più dimensioni e su argomenti maggiori, più grandi e filotecnologici, più “moderni”, insomma. E così l’ esistenza, la malinconia, le solitudini ma anche la natura, gli oggetti e la parola scritta diventano catalizzatori di una grande voglia di raccontarsi, aprendo il sipario su una conoscenza che si affronta con una strategia non appiattita, viva e vegeta come il Pop di allora. Una indagine che da una dettagliata forma di giusto sapere diventa motivo trainante di ogni e ciascun dipinto. E che si vada in moto a rischi maggiori oggi e in posti ben diversi da quelli di uno ieri neppure tanto lontano, non importa. Importa la pittura, esattamente quanto a Tripassi importa l’esprimersi alla maniera Pop. Rigorosamente italiana.