Nel segno della Musa

Le interviste di Marilena Spataro.
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“Ritratti d’artista”
Talenti del XXI secolo
Giuliana Cunéaz
Un percorso artistico che inizia con la scultura e con la pittura per approdare ben presto all'installazione, video arte e infine new media art. Linguaggio quest'ultimo cui l'artista aostana imprime un segno personale e originalissimo. E che la porta a essere oggi un nome di riferimento, conosciuto e stimato in Italia e all'estero.
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Quali i passaggi salienti di questo suo percorso?

«Il percorso dedicato alla sola pittura e alla scultura è durato poco. Già durante il periodo di frequentazione dell’Accademia Belle Arti di Torino capii che non volevo rimanere intrappolata dalla tela o confinata in un oggetto statico, ma il mio desiderio era soprattutto quello di lavorare sullo spazio con l’installazione e il video. La prima grande installazione ambientale dal titolo Archéopteryx l’ho realizzata ad Aosta nel Teatro Romano a metà anni ottanta. Era un lavoro ambientale e interattivo che nasceva dalla volontà di catturare l’impronta delle stelle in relazione alla rotazione terrestre. Tutto questo avveniva all’interno di tre coni specchianti e “abitabili” con al vertice un foro stenopeico. Questi elementi funzionavano come veri e propri apparecchi fotografici. Ho iniziato così a lavorare sull’ambiente e nel 1990 ho realizzato Il Silenzio delle Fate, una grande opera installativa composta da 24 leggii collocati in diverse località della Valle d’Aosta che avevano in comune l’apparizione leggendaria di una Fata. È stata una svolta importante: ero attratta dal mondo misterioso dell’immaginario e dalla sua relazione con la natura. Successivamente, ho iniziato a lavorare con il video, ma senza rinunciare all’aspetto installativo come dimostra l’importante mostra In Corporea Mente curata da Gillo Dorfles. Il lavoro si svolgeva intorno all’idea del corpo immaginato. In seguito, suggestionata dalle scoperta delle teorie di Edgar Morin ho iniziato ad interessarmi al tema della complessità creando lavori che avevano lo scopo di mettere in discussione lo sviluppo unitario dell’opera d’arte in base ad una ricerca che aveva lo scopo d’interrogarsi sui processi formativi della creazione. Mi sono, poi, dedicata alle trance e agli stati di coscienza cercando così di analizzare la natura misteriosa e metamorfica della coscienza. Questa ricerca mi ha condotta a frequentare sciamani, medium, ipnotisti, psichiatri ed è stato davvero molto interessante. Successivamente, ho iniziato a lavorare sulle dinamiche di gruppo e proprio in occasione del progetto Zona Franca del 2003 ho scoperto l’animazione 3D che poi ha accompagnato tutti i miei lavori successivi fino ad oggi facendomi così sbarcare tra gli artisti della new media art».
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Cosa si intende oggi per new media art e quali gli aspetti espressivi che maggiormente la coinvolgono di questo linguaggio artistico?

«Si inizia a parlare di new media art intorno al 2000, anche se fino a quattro o cinque anni fa i musei si disinteressavano completamente a questo genere artistico. Solo ora stanno nascendo centri specializzati e i lavori iniziano a circolare. I campi di interesse della new media art si sono estesi a forme sempre più innovative e complesse. In sostanza è un’arte creata mediante le nuove tecnologie, attraverso l’utilizzo di software; è un’arte immateriale che si può concretizzare attraverso lavori installativi e interattivi, stampe fotografiche, videoproiezioni ma anche attraverso sculture o creazioni robotiche la cui sorgente è però quasi sempre l’opera virtuale. Il computer è il punto di partenza e in una prima fase sostituisce le tecniche tradizionali di pittura o scultura. Io ho scelto di lavorare con il 3D le cui potenzialità sono infinite. Per quanto mi riguarda, è stata una scoperta che mi ha permesso dal 2003 di dare una svolta al mio lavoro. La tecnica contiene in sé tutte le principali discipline del mondo dell’arte: la modellazione, la pittura, l’animazione, la fotografia, l’architettura, il video. è un universo straordinario dov’è possibile sintetizzare ogni forma di linguaggio artistico senza procedere a scissioni artificiali. L’animazione 3D rappresenta per me un potenziale mezzo di sintesi delle arti. Spesso, cerco di far dialogare l’elemento virtuale con quello tradizionale, l’immateriale con l’argilla o la pittura».
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Chi e quali i maestri e i modelli cui si ispira e che più hanno influenzato la sua arte?

«Giorgio de Chirico è stato una mia grande passione adolescenziale. Ho incontrato poi opere di molti artisti che mi hanno conquistata da Giotto a De Dominicis così come da Piero della Francesca a Matthew Barney, o per citare artisti delle ultime generazioni penso a Tomás Saraceno o Roberto Cuoghi. Sinceramente, però, l’aspetto che più ha influenzato la mia arte è stata la scienza e in particolare il mondo delle nanotecnologie e le peculiarità dell’universo quantico. Nel nanomondo si possono osservare forme straordinarie e imprevedibili come simmetrie cristalline, delicati orditi, strutture geometriche o immagini naturalistiche. Sono state per me lo spunto per creare i mondi nei quali immergermi totalmente e consentire allo spettatore di fare altrettanto. Come scriveva il grande fisico americano Richard Feynman «C’è l'impeto delle onde/ montagne di molecole /ognuna stupidamente immersa/ negli affari suoi/ lontane milioni di miliardi/ ma spumeggiano all'unisono». Il senso è chiarissimo: nel nanomondo – come d’altronde nell’universo – c’è spazio per tutto. Anche per l’arte e la poesia. Il mio, ovviamente, è sempre stato un approccio artistico: in fondo, credo che lo scienziato o l'artista si interroghino sulle stesse questioni. Sia l’uno sia l’altro, quando guardano un polimero al microscopio elettronico o una volta stellata al telescopio, ricercano il piacere della scoperta. Ognuno dei due, poi, traduce la visione con i mezzi che gli sono propri. Io ho da sempre il grande desiderio di rendere visibile ciò che non lo è, almeno ad occhio nudo. Mi interessa il sensibile campo immaginifico che si crea intorno all’invisibile. Sono fondamentalmente un’esploratrice e lavoro sulla materia, come un archeologo nel sottosuolo. È come avvicinarsi al cuore più segreto della vita e constatare le qualità e i limiti della nostra potenzialità percettiva e creativa. Mi piace pensare che in ogni microgrammo di materia sia contenuta tutta la complessità dell’universo e immedesimarmi nell’improbabile sogno di un atomo».
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C’è nei suoi progetti il cinema, quello più tradizionale che vede protagonista la macchina da presa. Se sì quali i soggetti e il genere che vorrà realizzare?

«Anche nel mio film I Cercatori di Luce che uscirà prima dell’autunno la tecnologia è molto presente, in quanto tutti i paesaggi sono realizzati in 3D, mentre i personaggi sono reali ripresi su green screen e poi, in fase di post produzione inseriti negli ambienti virtuali. La realizzazione è stata particolarmente complessa sebbene di notevole interesse in quanto mi ha consentito di rendere possibile il dialogo tra le arti (danza, teatro, cinema, musica, moda). Il lavoro coinvolge attori di fama internazionale (una fra tutti, Angela Molina), stilisti, grandi stelle della danza, performer, top model e il musicista e compositore Paolo Tofani che ha fatto parte degli Area, tra i più sperimentali gruppi degli anni settanta. I Cercatori di Luce è una videoinstallazione su tre schermi dove il paesaggio nanomolecolare, di sofisticata bellezza, diventa lo scenario nell’ambito del quale i protagonisti compiono azioni tese a modificare il contesto. Rappresenta lo strumento per interrogarsi sul nostro stare al mondo di fronte ad un sistema dove la sostenibilità ambientale è stata messa in grave pericolo. Si crea, così, un grande affresco sul potere rigenerativo della natura attraverso il lento percorso che conduce dalle tenebre alla luce. I Cercatori di Luce, portatore di un messaggio di carattere sociale ed ecologico, rappresenta una ricerca all’avanguardia nella sperimentazione tecnica dove tutte le energie sono concentrate sulla ricerca della luce, intesa come materia connaturata alla terra feconda e “mente del mondo”. L’opera ha lo scopo evidenziare l’unione primigenia tra l’io e la natura: la luce si espande e diventa luogo di condivisione e di conoscenza».
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In questi ultimi anni il suo lavoro ha ricevuto molti riconoscimenti collocandola tra i talenti della video art in ambito internazionale, quali, a suo avviso, i motivi di questo successo?

«Direi la tenacia, la costanza di proseguire nella mia ricerca nonostante le difficoltà incontrate, la fiducia nel mio lavoro, inoltre la capacità di far fronte alla solitudine e allo scetticismo di molti e di non cedere a tentazioni legate al mercato o al facile successo».
Delle opere fino ad oggi realizzate quali sono quelle cui è più affezionata e che sente maggiormente rappresentative del suo universo artistico ed esistenziale?
«Ogni periodo ha le sue opere portanti. Ma volendo citarne solo alcune direi Il Silenzio delle Fate in quanto è ancora un lavoro molto attuale.
C’è, poi, un’opera del 1995 intitolata Biancaneve con cui ho una storia “affettiva” particolare. Birth Tree, un lavoro del 2008 e Waterproof del 2011 perchè celano strane coincidenze o premonizioni. I Cercatori di Luce, infine, è una tappa per me fondamentale. Scherzando lo chiamo “la mia Cappella Sistina.” Riassume tutti i miei interessi; è un po’ la summa dei miei precedenti lavori e di tutte le mie potenzialità».
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Qual è, a suo parere, il ruolo della video art e delle arti visive legate alle tecnologie digitali in un tempo di grandi mutamenti epocali, come questo che stiamo vivendo. Cosa ne sarà delle arti plastiche tradizionali?

«Più che al presente, mi rivolgerei al futuro prossimo. Credo sarà inevitabile per il mondo dell’arte confrontarsi con le tecnologie e questo sovvertirà il gusto del nostro tempo e il mercato dell’arte. Le tecnologie sono già presenti da tempo nelle opere di molti artisti ma c’è stata sempre una certa resistenza da parte del sistema ad accogliere i lavori che non fossero “fatti a mano” e che non fossero pezzi unici cioè non riproducibili. Anche se in questo Andy Warhol ci ha dimostrato che la serialità non è necessariamente un limite. Ma la società si sta sviluppando intorno alle tecnologie digitali e soprattutto i giovani lo dimostrano. La pandemia poi, ha rappresentato in tal senso una straordinaria accelerazione. Credo, tuttavia, che la pittura, così come la scultura continueranno ad esistere, probabilmente ne usciranno valorizzate. Le tecno- logie e le arti tradizionali possono coesistere e in certi casi integrarsi».
Come vede il futuro dell’umanità e quan- to a suo avviso l’Arte, specialmente quel- la degli artisti più visionari e ispirati, è capace di anticipare e cogliere il mondo che verrà?
«“Lo scopriremo solo vivendo”. Spero che l’umanità riuscirà a darsi un futuro iniziando sin d’ora attraverso una maggiore coscienza ecologica. Gli artisti sicuramente sapranno interpretare e rendere più piacevole il difficile compito dello “stare al mondo”».
Oggi cos’è l’Arte. Si può immaginare un mondo senza?
«No. L’arte fa parte della nostra natura di esseri umani. L’arte di oggi non credo sia tanto diversa dall’arte di sempre. Cambiano gli strumenti, le tecniche, gli stili, i gusti, il modo di proporla. Ma in fondo i motivi e le emozioni che ci spingono a creare o quelli che ci arricchiscono nell’incontrarla sono sempre gli stessi».
Quale il rapporto che intercorre tra le arti tradizionali e la new media art. Come si configura questo rapporto nel suo lavoro?
«Personalmente le utilizzo entrambe. Anzi mi piace molto la relazione che si crea tra l’immagine impalpabile del virtuale e quella concreta e densa della materia. Il mio rapporto è ottimo! Lo dimostrano i miei screen painting che coniugano la pittura su schermo TV alle immagini digitali in 3D con un effetto di immediato impatto visivo. Creare il primo screen painting è stato come abbattere un tabù. Intervenire con un pennello intinto nel colore direttamente sulla pelle dello schermo in modo da far dialogare l’immagine virtuale con quella pittorica, è stata una bella emozione. Oppure le wunderkammer che affiancano immagini digitali dalle forme nanotecnologiche con le sculture dalle stesse forme realizzate con argilla cruda».
Quale la welthansauung, il terreno emotivo e culturale da cui nasce il suo lavoro?
«Sono un’artista visionaria che non ha mai rinunciato all’aspetto poetico ed emozionale dell’opera. Sono in molti a dirmi che le mie opere, nonostante le tecnologie, conservano un fascino arcaico. L’artista riesce ad umanizzare la tecnologia, a trasferire in essa un po’ della sua ani- ma».
Un sogno nel cassetto di Giuliana Cunéaz?
«Quello di vedere svettare le grandi torri monumentali di waterproof nel mare di Fukushima. Ho realizzato quel lavoro video appena prima che succedesse il disastro, in seguito a una vera e propria premonizione. La scena era ispirata a due antiche tavole giapponesi».