Piero Masia: Il ritmo del colore.

di Giorgio Barassi.
Cominciavano le giornate da passare in campagna, e i ragazzini seguivano il nonno nei campi. La Sardegna esaltava tutta la sua potenza di terra selvaggia e bellissima, nell’aria l’odore del mirto, del mare, dei frutti di quelle campagne ordinate, i cui limiti erano scanditi dai muretti a secco e dalle pulitissime arature, nette come colpi di pennello puntuali. Piereddu e i suoi compagni di mille giochi, tra i campi, erano pronti a raccogliere fichi, nespole, pesche, pomodori “cuore di bue” e ogni altro ben di Dio piantato da nonno secondo antichi rituali. Non mancavano le fatiche maggiori, pesanti per i ragazzini. Ma mentre loro si davano da fare, il nonno, al fresco di un albero frondoso, si sedeva lasciando a quell’aria ineffabile e saggia dei silenziosi sardi il compito di difenderlo da qualsiasi rivendicazione. A nessuno dei piccoli sarebbe mai venuto in mente di chiedergli perché mai stesse lì in sosta, con la lunga pipa in bocca, mentre c’era un bel pò da fare. Altri tempi.
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E così, giorno dopo giorno, tra le corse, i giochi, i richiami delle mamme e quel sole unico, si cominciavano ad accumulare i dati che ritroveremo su molte opere di Piero Masia, che era quel Piereddu e tale è rimasto, con l’entusiasmo del ragazzino e la forza di un pittore maturo. Nondimeno i significati della sua poliedricità di artista vivono una loro esistenza in altre sue opere. Quel nonno lo ritroviamo in molti suoi dipinti, appoggiato al tronco dell’albero, come ritroviamo la presenza di due soli splendenti nei suoi paesaggi, figli di una filosofia semplice e profonda: dopo un tramonto, o il sovrapporsi delle nuvole e degli eventi, un altro sole gagliardo è pronto a splendere. Un inno alla vita ed alla costanza, che in Masia è stata arma fondamentale.
A Sassari, durante la Cavalcata Sarda, grande e nobile festa di tradizioni, colori, costumi ed orgoglio, Piero incappa in un episodio determinante per la sua vocazione alla pittura. Era un ragazzino, e in quel tripudio di cavalieri ed allegria, arrivano in città gli eroi a cavallo a lui più noti, ospiti di quella edizione come accade da sempre: i nativi americani delle tribù indiane, coi loro copricapo piumati, la loro severità espressiva, la loro cultura profonda e silente, vicina, per sapienza e fattività, a quella dei sardi. Masia svicola tra la folla, i cavalli e l’entusiasmo per avvicinarsi ad uno di quei cavalieri di cui sapeva leggendo Capitan Miki, Tex, il Grande Blek Macigno ed altri fumetti. Rimane incantato. Sfiora la pelle di uno di quei mitici guerrieri in sella con un gesto da ragazzetto curioso, lo vede grande come una montagna e mitico come ciò che immaginava. Accade che da allora sente l’urgenza di dipingere, di raccontare coi colori quello che la fantasia ispira e sostiene, inenarrabile a parole. Come se un fluido di emozioni fosse passato di colpo dalle praterie americane ai pascoli dell’Isola ed ai silenzi del mare. Come se il capo indiano, senza parlare, gli avesse ordinato di compiere con serietà il mestiere di pittore che Masia ha svolto e svolge in sella alla sua libertà espressiva, mai doma.
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E poi, appaiata alla voglia di dipingere, la musica: tanta, ricca, suonata con passione ed ascoltata alla radio e dai 45 giri appena usciti, custoditi con cura. Masia è musicista di quelli più determinanti, batterista. La ritmica, nei complessi musicali (oggi si chiamano “gruppi”, ed è evidente che siano altro) dipende da chi porta a registro l’andare di una canzone, coadiuvato dal basso elettrico. Per non andare fuori tempo… “basta guardare le facce che ti fa il batterista…”, dicevano i cantanti più scafati. Il fatto è che Masia ha scandito il ritmo del suo dipingere senza perdere una sola battuta, cambiando, accelerando o rallentando a seconda dei casi della vita e delle sue alterne fortune, stoppando se necessario e battendo forti colpi di cassa o decise bacchettate al piatto per chiudere i suoi dipinti come una canzone dei tempi in cui, coi “Mah”, complesso musicale di qualche buon successo, girava la Sardegna per far ballare turisti e locali nei dancing, nei teatri e nelle piazze ben diverse da oggi, battendosi coi Barritas, che realmente spopolavano a quei tempi.
Accade che i Mah vengono scritturati a Torino, e si parte dall’Isola per la città. Si suona al Massaua, al Le Roi alla Grotta, e i Mah finiscono per sfiorare la via per Sanremo, passando da Castrocaro. Il segnale è che il fato vuole Piero Masia a Torino, dove oggi vive e dove, rientratovi dalla Sardegna, in pochi anni mette in piedi il progetto Artecity, coordinando le attività degli artisti, smacchinando per promuovere non sono la sua arte ma anche quella degli artisti torinesi, che per difetto di conoscenza ci si limita a ricondurre, ingiustamente, al solo Casorati. Torino gli ha dato un assesto definitivo, una laurea in giurisprudenza e un lavoro di responsabilità tra le maglie della allora Intendenza di Finanza. Attualmente continua a occuparsi di ricorsi, calcoli, roba da ragionamento puro. In pratica non ha smesso la veste razionale del suo essere, e questo modus vivendi et operandi è lo stesso del batterista: senza una logica, senza la scansione ritmica inappuntabile dall’inizio alla fine, non si comincia né si arriva. Masia sente il carico del dipingere senza strafare, con serietà e coscienza.
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Il dato della consistenza razionale dei suoi dipinti è evidente dalla uniformità della luce che li invade, quanto dalla compostezza, e sembra controsenso, dei suoi dipinti informali e degli accenni convincenti alla astrazione. Nella pittura di Masia nulla è lasciato all’assoluto caso. Nelle numerose mostre personali e collettive, chi ha osservato ha approvato quella unità concettuale evidente nei volti, nei cesti di frutta, negli accenni ai paesaggi e nelle sintesi informali. Tutto è riconducibile ad un ordine precostituito e rispettato, ad una linea di condotta che ha diramazioni e derivazioni, forme ed espressioni diverse, ma uno stare a schiena dritta nell’atto stesso del produrre che frutta all’artista la capacità di alternare il suo linguaggio, senza mai perdere “il ritmo” di quanto ha imparato nelle frequentazioni di Vincenzo Manca, pittore sardo dalla poliedrica applicazione dei teoremi sul colore. Alta, grande voce dell’esprimersi su piani diversi, dalla astrazione alla figurazione radicata nelle forme e nei costumi della tradizione sarda, millenaria e fiera.
Masia ha una pittura che sintetizza le sue emozioni e non le filtra. Semmai le dipana con espressioni differenti, dalle opere “frammentate”, attraversate da fu- ghe di colore che sembrano dar l’idea di un mosaico virtuale ai paesaggi ed ai personaggi fino alle “astrazioni”, che in realtà sono espressioni riconducibili a idee e ideali: il profumo ed il colore dei fiori, il fragore di una mareggiata, il mutare delle tinte di un tramonto. Nessuna delle sue opere manca di citazioni, di calibro cromatico, di precisione esecutiva. Perciò il ritmo conta e come. Perché nulla, nella pittura di Piero Masia, è lasciato al caso. Neppure quando vorrebbe scatenarsi in una esplosione di colori pareggiabile ad un assolo interminabile di batteria. Masia sa portare rispetto al suo pubblico, e non gli passa mai per la testa di imporre la sua arte. Semmai sembra dirci “…guardate quello che faccio. Troverete tutti i riflessi dei miei sentimenti…”.