“Ritratti d’artista” - Maestri del XXI secolo

Le interviste di Marilena Spataro.
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Nicola Samorì
Dipinti e sculture che scavano nei capolavori dei maestri del passato, duplicandoli e reinterpretandoli in chiave visionaria. E che ne svelano la più intima natura e i più reconditi segreti estetici e formali. È da questa “impietosa” indagine che scaturisce il fascino delle opere di questo artista romagnolo, poco più che quarantenne. Oggi uno dei maggiori e originali protagonisti del panorama artistico contemporaneo.

Anagraficamente giovane, ma con una carriera che la vede già artista affermato e con prestigiose partecipazioni ad eventi di assoluto rilievo e mostre personali tenute in tutto il mondo. Quali i passaggi e le tappe salienti del suo percorso artistico dagli esordi ad oggi?
«Quando da bambino ho visto per la prima volta scuoiare un coniglio in campagna, anche se ancora non lo sapevo, sono diventato un pittore; più tardi, verso il 2009, mentre “sbucciavo” una tavolozza per ripulirla dai colori essiccati, ho scoperto la freschezza istintiva che si nasconde dietro le pennellate accurate ed ha avuto inizio il segmento più radicale della mia ricerca».
In un panorama complesso, e, spesso, caotico, come è quello dell’arte contemporanea, quanto è difficile per un artista ritagliarsi un proprio spazio che gli consenta di esprimersi in assoluta autonomia ed esclusivamente sulla base delle proprie convinzioni culturali e delle sue scel- te estetiche?
«Basta decidere di vivere a Bagnacavallo, di non essere presente in tutti i social, e di avere un comportamento che sfiora l’autistico nei confronti delle immagini. Un misto di devozione, ottusità, amore e paura».
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In una società in cui tutto è apparenza, clamore, spettacolo urlato, superficialità, trovata, molto spesso anche in ambito artistico, come si colloca la sua arte, sofisticata e fatta di silenzi, carica di citazioni e rimandi colti ereditati dal passato, un'arte legata a un mondo e alle sue immagini oggi percepiti dai più come lontani anni luce dalla contemporaneità. Arte, dunque, antimoderna o postmoderna? Quale il pubblico cui essa si rivolge e che negli anni le ha tributato tanti riconoscimenti prestigiosi?

«In realtà non credo di essere in disaccordo col mio tempo. La densità, la voglia di far affiorare i muscoli della forma, di complicarsi la vita con un esercizio formale molto complesso e a tratti virtuosistico generano molta attenzione. Chi mi osserva è per lo più un’umanità giovane o giovanissima, fuori dai meccanismi che hanno forgiato le arti fra gli anni sessanta e gli anni novanta. Sono i vecchi a darmi del vecchio. Non cerco un pubblico, ma c’è un folto gruppo di persone che nel tempo si sono interessate a quel che faccio e che appartengono a latitudini diverse del mondo. Credo che i forti segni di appartenenza al mio tessuto culturale, dai riti contadini alla persistenza della cultura bizantina nella mia città (Ravenna), alla enorme ricchezza dell’arte italiana, siano avvertiti come qualcosa di autentico e di attraente».
Quale il rapporto tra pittura e scultura nelle sue opere?
«Si osservano, si spiano, si cannibalizzano. La pittura si solleva dal sonno bidimensionale scrutando la scultura che, a sua volta, attinge alla policromia delle pietre cercando di farsi pittura».
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Le figure che lei realizza intervenendo sulle opere di artisti del passato sono immagini uniche e originalissime dotate di una visionarietà ancestrale. Esito di una smaterializzazione capace di fare emergere un sentire archetipico e arcaico che si perde nella notte dei tempi. Da dove attinge e da dove le giunge tutto ciò? Si direbbe quasi un’alchimia…

«È un automatismo che ha preso forza in decenni di lavoro appassionato e ostinato».
Scavare nei meandri più sconosciuti, tra i segreti più profondi degli artisti e delle loro opere, cercarne l'essenza, graffiandola, profanandola e facendone emergere la natura più recondita. Quali i moventi estetici ed esistenziali da cui prende le mosse la sua opera?
«Cerco di esplorare spazi dove altre discipline faticano a spingersi, attraverso l’invenzione - intesa come costante riscoperta - di forme che toccano la morte, la meraviglia e la violenza, l’ossessione, la sublimazione della materia e la religione».
A proposito di religiosità, c’è un senso enigmatico del sacro, di spiritualità che aleggia nel suo lavoro e che gli conferisce un fascino che lo colloca in una dimensione quasi ultraterrena. Quali le origini di questa sua religio?
«Ho gli occhi pieni di Santi e del loro martirio: me ne sono innamorato e molto spesso li convoco».
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Da un anno a questa parte il mito di Prometeo sembra andato ad infrangersi contro una pandemia causata da un microscopico virus che tiene in scacco il mondo intero e da cui potrebbe scaturire il disfacimento della società con tutte le sue certezze. Un disfacimento che i suoi lavori sembrano profeticamente anticipare...

«Fare il profeta di sventura significa vincere facile, e l’allarmismo è quasi una scienza sicura. La nuova pestilenza è solo l’ennesimo assalto alla fede nel progresso, perché la degenerazione, la perdita di controllo o l’informe sono energie e stati inevitabili che, osservati da prospettive inusuali, non mancano di rigore. A me interessa l’intelligenza della ruggine».
Quale il ruolo dell'arte rispetto alla società. A suo avviso esiste un legame tra etica ed estetica?
«Non credo in una responsabilità dell’arte; semmai ho fiducia in una irresponsabilità dell’arte, intesa come una forza che non illustri necessariamente la politica e i temi caldi, che non stia per forza dalla parte dei “buoni”. Perché l’arte può anche mettere in scena e corteggiare il male, il cattivo, il disimpegno. Un’arte schierata è un’arte che rinuncia alla irriducibile complessità del reale. Da che parte sta Cézanne? Io non me lo sono mai chiesto. In sostanza non credo che l’arte si debba porre il problema di far star meglio, di far crescere la società, ma di mantenerla vigile e umana».
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Come è il suo rapporto con il mondo dell'arte contemporanea. E come vede il futuro dell’arte, lei così legato alla realizzazione fisica dell’opera, laddove, invece, si vanno affermando linguaggi sempre più legati alla tecnologia e alla digitalizzazione dell’immagine, meglio definite new media art?

«Il presente, l’immediato futuro, il futuro prossimo hanno senz’altro una vocazione digitale, votata alla smaterializzazione dell’opera. Ma finché abiteremo un corpo non perderà mai di senso un’orma diretta come la pittura: fra la caverna e la rete c’è sempre un corpo di mezzo».
Nonostante fama e riconoscimenti artistici c'è ancora posto per i sogni in Nicola Samorì. C’è ad attenderla un sogno nel cassetto?
«Finché sarò in grado di leggere un ge- sto di Velázquez ci sarà sempre qualcosa a cui aspirare».
È in corso in questo periodo una sua antologica a Bologna in uno degli spazi espositivi più prestigiosi della città: Palazzo Fava. Un privilegio questo riservato a pochi artisti della contemporaneità, specie se giovani come lei. Cosa significa per lei questa rassegna. Ce ne parla?
«Un privilegio è anche una responsabilità, e l’euforia provocata dell’occasione è presto diventata una sfida. Vivo il mio ingresso a Palazzo Fava come una sequenza di piccoli campi di battaglia. Non parlerei di dialogo, ma proprio di lotta che, in qualche caso, sfuma in uno scambio di occhiate indifferenti fra me e l’ospite. Non mi era ancora accaduto di rileggere il mio percorso attraverso ottanta lavori realizzati lungo un arco di circa vent’anni, e sarà il momento per intende- re, con tutta probabilità, una cosa semplice: che in due decadi non è accaduto nulla al mio lavoro, che non c’è stato un progresso. Ci sono solo opere buone e meno buone. Una piccola metafora di quella che credo sia la storia dell’arte, vale a dire una linea non progressiva dove ogni tanto si ode un acuto».