SILVIA PACI:Talento, surealismo e metafisica

A cura di Giorgio Barassi.
Non riuscivo a distinguere bene quelle cose che di solito l’occhio registra senza difficoltà: i pali della corrente, le luci, le automobili in sosta, il cielo nero.
C’era una strana bellezza nelle loro distorsioni surreali. Sembravano assalire gli occhi da ogni parte.
(Banana Yoshimoto)

La giovane età di Silvia Paci fa pensare subito al fatto che il suo talento sia nato con lei e sia stato semplicemente svezzato in un territorio, la Toscana, che sa di arte pura ad ogni angolo. Divenuto maggiorenne, quel talento ha iniziato a prendere la via del successo, perché il talento di Silvia non può essere confuso con altro e non può subire l’onta della limitazione. Le sue scelte sono state difficili e sofferte, ma l’intenzione era quella di direzionare studi ed esperienze verso un punto indefinito, immaginario e provocatorio. Nulla di confrontabile è nella sua pittura, che intriga quanto intriga un mistero. Ha scelto bene di chiamarsi fuori dalle definizioni sommarie del suo percorso, e perciò ha scelto un cammino arduo, sapendo bene di poggiare su una tecnica notevole e una conoscenza dell’arte a lei precedente davvero invidiabile.
Così Silvia ha fatto crescere le sue doti, alimentate da studi specifici e sperimentazioni complesse, senza abbandonarsi alle sirene di un mondo difficile ed inquinato. Attribuirle una definizione come semplice surrealista è dunque poco, perché la miscela delle sue visioni, che diventano quadri, prevede una forte conoscenza delle tecniche più difficili, la sperimentazione in senso ampio e una conoscenza dei cardini della metafisica non indifferente.
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Ama i classici, Silvia Paci, e ovviamente ha deciso di ispirarsi a un periodo fortunato della pittura e del pensiero degli inizi del XX secolo, andando a scavare tra le donne del surrealismo. Leonora Carrington, Dorothea Tanning e Dora Maar su tutte. Allora, dopo la fine della Prima guerra mondiale, le donne del surrealismo decisero che il loro mondo, quello femminile, non poteva essere relegato al solo ruolo di muse ispiratrici, e, quando andava bene, di modelle. Volevano ed ottennero una autonomia espressiva che fu a tratti molto più provocatoria e decisiva di quanto fosse perfino nei pensieri di André Breton.
Nelle sale si ballava il charleston e un certo Dottor Freud cominciava a far emergere la categoria dell’inconscio. Oggi, quando il rap è di casa, Silvia Paci fa battere il martello della provocazione che nasce dall’incontro della strana dolcezza della metafisica con lo sbigottimento da surrealismo. Surréalité, si diceva. Sopra od oltre. Non importa. Le figure di Silvia, qual che sia la loro ambientazione, preferibilmente misteriosa, avvolta da boschi fitti o da spazi assolati, nascono da una corretta e meticolosa costruzione tecnica e attirano quanto il totale delle sue opere. Come se avvenisse, finalmente, qualcosa che riesce ad attrarre nella sua globalità e trascina in un alone di pensiero, di immaginazione e di inquietudine. Va detto che l’inquietudine appena evocata è però un dato che stimola riflessioni e complementi della osservazione del suo lavoro, perché, in fondo, a Silvia Paci piace raccontare quel che molti hanno a volte in sorte di sognare. Solo che non tutti lo dicono.
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Dare un perimetro di azione alle sue operazioni artistiche è fuori luogo. Intanto perché proprio la sua capacità espressiva avrà mille e mille forme ancora da affrontare, e poi perché quell’inconscio e quella surréalité sono elementi svincolati da qualunque previsione, da qualsivoglia programmazione possibile. Il possedere una tecnica di cui tutto conosce, è per la pittrice toscana un mezzo e non un fine. Sa di poter contare su una preparazione importante, e questo le serve a dare maggior carica espressiva alle sue figure, che sbucano da una fondamentale assenza del reale pur essendo grandi prove narrative di una pittura colta, quasi antica, che si arricchisce di interventi degni della più innovativa sperimentazione moderna. È come se Silvia avesse già previsto che i temi e la tecnica della sua maniera di operare fossero davvero una via per far emergere quanto realizza. Di fatto, oggi, è mol- to più trasgressivo saper dipingere un vol- to che impiastricciare fingendosi alternativi.
I più recenti lavori, che sono trampolino e non punto di arrivo, pescano in una doppia forma di rispetto evocativo del passato dell’Arte. Il romanzo di Emily Bronte, Cime tempestose, del 1846, uscito l’anno dopo col titolo inglese Wuthering Heights, ha portato Silvia Paci ad ispirarsi non solo alla appassionante e drammatica storia d’amore che finisce per diventare distruttiva. Ma ad attingere addirittura al lavoro già dedicato dal grande Balthus (Balthasar Klossowsky de Rola) alla illustrazione di quel romanzo, coi suoi propri principi creativi, nei primi anni Trenta del XX secolo. Da lì, con le sue visioni surreali e metafisiche, Silvia propone intensi dipinti di figure, compreso il suo autoritratto, dalle posture innaturali ma non sgradevoli, quasi irreali ma riconoscibili ed intriganti come tutta la sua pittura.
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Lo ha fatto, in qualche caso, bagnando il pennello solamente nelle terre d’ombra, col chiaro intento di ridare vitalità a tinte che sanno di passato e soprattutto di lontani maestri toscani. Ne deriva un racconto che contiene tecnica, mistero, surrealtà e sospensione del tempo. Attese che si leggono anche nei suoi grandi dipinti in cui, spietatamente, narra di disagi sociali, di misteriose figure incombenti alle spalle di leggiadre bellezze dal volto delle Madonne di scuola toscana, vestite di veli, o colorate nell’abbigliamento o addirittura coperte da qualche sdrucito lenzuolo, come un moderno sudario.
Si incrociano, come per magia storica, le storie di Balthus e quelle di Silvia Paci. Il primo, provocatorio, innovatore, dall’inconfondibile erotismo narrativo, non ha mai fatto mistero del suo autentico amore per Masaccio, Piero della Francesca, Simone Martini, Masolino. Riportò in auge la pittura delle figure quando la figurazione venne emarginata, compiendo un atto di coraggio che la storia ha premiato. Silvia ha invece affrontato anni di lavoro a Berlino, mescolando la sua naturale prontezza e raffinatezza creativa toscana, che sa di alta pittura, con le avanguardie più temerarie e con vicende di osservazione della realtà dal profondo significato, che finisce nei suoi quadri con una stupefacente facilità, a molti suoi colleghi ignota. Una operazione non semplice ma altamente notevole, in un marasma che non ne vuole sapere di arrendersi al fatto certo di una decadenza di ispirazioni e creazioni. Il suo avanzare non è un viaggio controcorrente fine a sé stesso. È figlio di un convincimento cresciuto coi colori dei secoli trascorsi, nel rispetto delle regole essenziali ma pienamente arricchito da accorte stravaganze fascinose.
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Quel che ci aspettiamo da Silvia Paci non è calcolabile. I veri talenti, in tutti i cam- pi, non sono prevedibili. Chi affronta il suo lavoro pensando di intuire dove possa andare a parare il suo talento fa la fine del difensore del gioco del calcio che tenta di bloccare il fenomeno autentico. Dribblato, umiliato, sconfitto da una genialità imprevedibile ma in fondo semplicissima: lei fa quel che non è dato ad altri di saper fare. E lo fa benissimo.