TRENTACOSTE, HEARNS, IL SACCO E LA BOXE

di Giorgio Barassi.
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Ho capito perché Tommy Hearns è il pugile preferito da Giuseppe Trentacoste. Hearns non si è mai risparmiato, ha combattuto sempre senza timori riverenziali di sorta e quando era il momento di sferrare il colpo del KO lo faceva con una strana naturalezza. Colpiva con fisiologica regolarità ad eseguire un movimento difficile. Sereno, pur se in applicazione delle ferree regole del pugilato, Hearns guardava il destinatario dei suoi diretti e dei suoi ganci come il San Giorgio delle antiche icone guarda il drago incattivito e ferito, con una fermezza che gli arrivava dalla forza della sua fede in sé stesso e nel Cielo. Quasi distaccato, oggettivamente preso dalla sola certezza di arrivare al bersaglio, cercando gli unici punti di debolezza in tanta forza. La superbia, la tracotanza, il fondo atletico, la tecnica stessa, nulla possono contro l’acume tattico e lo studio dell’avversario compiuto in pochi secondi. Nulla vale quanto lo scoprire il vulnus di chi hai di fronte nel minor tempo possibile. E vale in molte cose della vita. Peccato che sulla sua strada abbia trovato un certo Marvin Hagler detto “The Marvellous” (che guarda caso è il mio preferito), il quale avrebbe mandato al tappeto chiunque. Ma quest’ ultimo era di un altro pianeta, aveva fattezze perfette, una scaltrezza da faina e una tecnica superiore in ogni senso.
Trentacoste ha praticato a lungo il pugilato, ed oggi allena ragazzi volenterosi che lo ascoltano specialmente nella parte più chiara a chi prende le cose sul serio ed evitata da chi crede di diventare una star: il sacrificio, l’impegno, la sofferenza e la ricerca della miglior condizione, sempre. Da qui si capisce perché Hearns e non Hagler o Mohammed Alì. Trentacoste conosce i suoi limiti e non si impegna nella impossibile avventura di superare gli ostacoli eccessivi, non chiede la ribalta né reclama le effimere gioie di cronache temporanee. A lui interessa, e qua prendiamo a parlare della sua propria capacità di artista, fare bene il suo lavoro. Incuriosire chi osserva le sue opere mostrando tecnica, inventiva e impegno. Vive la sua avventura artistica con la consapevolezza del capace e dell’ ordinato mentalmente. Ricerca e sperimenta senza mai mollare, certo della riuscita e del valore della sua caparbietà creativa, che un giorno gli ha fatto incontrare la juta, il materiale dei sacchi che solcano i mari a bordo delle navi, pieni di caffè o di cacao, di storia e di vicende che transitavano sulle spalle dei facchini e oggi viaggiano ordinati in camion moderni, giacendo nei magazzini per poi esaurire il proprio compito, svuotati ed abbandonati senza avere più l’utilità per cui furono creati.
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Ma il sacco è stato troppo a lungo nelle elaborazioni altrui, ha vissuto l’epopea di Burri e di quanti lo hanno spesso usato come complemento e povero decoro. Insomma, ha fatto, nelle operazioni artistiche, il suo tempo. Mancava però un ruolo a cui il povero sacco non era avvezzo: farla da protagonista nella sua rude crudezza. “…Il corpus delle mie opere è il sacco. Il vero protagonista è lui…” dice Trentacoste. Dunque non una funzione legata al suo utilizzo come materiale, ma il nucleo stesso della sua opera. Nudo e crudo si, ma rinforzato e modellato grazie agli interventi di una materia duttile, simile alle paste che usavamo a scuola per inventarci corpi o cose da colorare. Quel morbido e grigio materiale viene steso su un piano, lavorando orizzontalmente, come facevano gli antichi iconografi, e ricoperto dalla tela del sacco. Quindi manipolato perché prenda le fattezze degli stati d’animo, dei sogni, delle angosce e delle gioie di un artista talentuoso e silenzioso che inventa volti e oggetti con la disinvoltura di chi ama avvicinare le sue opere solo alla sua esperienza e non intende, a ben ragione, scivolare nelle ovvietà dei paragoni con altri ed altro. Così il sacco, e la sua conseguente declinazione in struttura e centro dell’ opera, torna ad essere messaggero e trasportatore di una storia, ma chiude le sue ali che non lo portano su una nave sconosciuta, sbatacchiato dalle onde. Entra nelle case dei collezionisti con una nuova e più densa veste di opera d’arte. Vive una vita nuova, più nobile, meno faticosa e più degna. Finalmente un compito adatto ad un lavoratore indefesso, a un contenitore silenzioso che non chiede nulla e dà tutto. Della sua Toscana, Trentacoste ha la dolcezza serena delle espressioni, la pungente apposizione di termini adeguati quando ci si esprime ma non la baldanza di un protagonista guascone di novelle medievali né la giustificabile vanterìa di chi vive in uno dei luoghi più belli al mondo. Quando parla, con la discrezione e la voglia chetata di dirne tante, cerca il giusto aggettivo, sistema le parole perché siano brevi e ficcanti. Cerca lo spazio tra i guantoni dell’ avversa e diffusa ignoranza per affondare il colpo. Intervistato durante una puntata di Laboratorio AccA si è espresso con molto garbo, e chi ascoltava ha capito che questo ragazzone ha tanto da dire e dare ma non fa passi avventati. Preferisce chiudersi nella palestra del suo studio a sperimentare, confortato dalla saggezza degli anni e dal sostegno delle spalle sopportatrici di pesi esistenziali che hanno lasciato un segno come una cicatrice sanguinante dopo un brutto match.
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Potrebbe, ma la sua discrezione glielo vieta, appoggiarsi al suo cognome e vantare la parentela con Domenico Trentacoste, docente di scultura alla Accademia delle Belle Arti di Firenze all’inizio del secolo ventesimo, quando era appena cominciato quel periodo che comprese due guerre e tanta frenetica attività artistica. Domenico Trentacoste fu uno scultore dalle forme perfette ed ineccepibili, un maestro di bellezza e di armonia. Uno di quegli artisti ai quali dovremmo inchinarci in segno di gratitudine perché il passare in sottordine nella folla di artisti italiani di quella bella epoca gli ha dato men che la metà di quel che avrebbe meritato. Ma il Professor Trentacoste era preso dalla passione per l’insegnamento più che dalla fame di notorietà. E il suo discendente Giuseppe, il nostro “gran saccàio”, scandisce i ritmi della sua ricerca andando a trovare nuovi stimoli e nuovi temi nel suo mondo, prima ancora che in quello circostante. “…Quelle facce che vengono fuori dal piano delle mie opere, sono le mie. Ho la fragilità degli uomini e allora rido, piango, mi appassiono, mi arrabbio. Le mie espressioni finiscono dentro le mie opere…”. E allora se lo spazio dell’opera è composto da pezzi di tela di juta cuciti fra loro si tratta di momenti di intima riflessione, di medicamenti all’anima. Più lineari e narrativi sono invece quei pezzi di tela ordinati ed aderenti al supporto di legno leggero : lì Beppe è più ordinato e razionale, racconta con maggiore chiarezza, affonda il colpi senza subire le interdizioni, mirando ad una esecuzione perfetta ed architettando un degno sfondo a volti mitologici, storici o grotteschi che siano comunque figli del suo sentire contemporaneo e passionale.
In queste varianti, poche ma significative, è l’essenza della sua operazione artistica. E non si creda che le sorprese siano eluse. Un pugile che vuol vincere non si limita alle teorie rispettabilissime secondo cui, ad esempio, il brevilineo preferisce i colpi circolari. Essendo longilineo e saldo sul ring come il suo Tommy Hearns, Trentacoste può sfoderare sia un improvviso montante che un ricamato crochet, come ha fatto, ad esempio, quando ha sovrapposto ad una sua “Tela piegata” (la definizione che lui predilige) una tela bianca squarciata al centro da una mano armata di pugnale che emergeva dal bassorilievo, per omaggiare Lucio Fontana e la sua intuizione geniale. Trentacoste conosce bene l’ arte a lui precedente, e ne rispetta l’intimo significato. Ama la sua terra e le cittadine piene di richiami agli altissimi momenti del costruire italiano di un tempo. Ma ha gli occhi piantati verso il futuro, e le sue tele di juta sono un inno agli oceani, alle merci che hanno viaggiato, agli uomini che le hanno trasportate.
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Tutta roba di cui potersi vantare perfino eccedendo la misura. Se vi aspettate di vederlo ringhiare dall’angolo, sarà vana attesa. Lo troverete a guantoni incrociati, tranquillo e riflessivo, seduto su una soglia di pietra serena della sua Toscana, mentre pensa a come piegherà la prossima tela ed a quale espressione gli verrà fuori dopo aver modellato, incollato, applicato le resine ed atteso pazientemente. Lui ha il passo dell’ atleta ma la pazienza di un filosofo.