Franco SECCI, pittore

a cura di Giorgio Barassi
La Sardegna, persa tra Europa e Africa, appartiene a nessun luogo.
Appartiene a nessun luogo, non essendo mai appartenuta a nessun luogo.
Alla Spagna e agli Arabi e ai Fenici, più di tutto.
Ma come se non avesse mai veramente avuto un destino. Nessun fato.
Lasciata fuori dal tempo e dalla storia.

(David Herbert Lawrence)

Nel raccontare la pittura, l’esperienza e la serietà di Franco Secci non possiamo essere imparziali.
Mettere piede nella sua terra, non solo per chi scrive, significa farsi travolgere dalle sensazioni di bellezza inarrivabile della natura e lasciarsi cullare da quel mare turchese e trasparente. Da odori, aria, vento, cibi unici, parole ascoltate e riferite poi come prova della fierezza, anche linguistica, dei sardi.
Sulla via che collega la antica Karalis a Villasimius, dopo aver viaggiato in un lungo viale che attraversa le Saline, si arriva a Quartu Sant’Elena. Un angolo di terra che guarda in faccia il mare senza clamori. Case basse di fronte al blu, in ordine silenzioso, che rispecchiano l’indole di un pittore capace e convincente quanto riservato e non incline alla autocelebrazione. Merce, cioè, rara.
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“Io so di essere un pittore, se sono un artista lo deciderà il pubblico…”.
Parole che raccontano l’uomo meglio di qualunque descrizione. Secci ha il senso del disegno ed il talento del pittore vocato da sempre alla ricerca della bellezza. Dopo qualche frase di circostanza e qualche domanda, tira fuori un vecchio disegno colorato degli anni della adolescenza. Una prova da fanzine dedicata a Edoardo Bennato. Poi un altro ed un altro ancora, tutti simboli di una ricerca caparbia che lo ha portato fino alle tele che non sono mai solo olio o tempera, ma incroci con carboncini o pastelli ad olio o chissà mai che altro, pur di ottenere una singolarità ormai riconoscibile ed evidente quanto la sua convinzione a migliorarsi. Non ha avuto, e in questo si legge ancor più la sua volontà incrollabile, un percorso accademico convenzionale, ma quando i suoi componimenti hanno preso la via di ciò di cui non puoi fare più a meno, si è dedicato alle lezioni dirette di un maestro, Antonello Pintus, che tiene a bottega gente decisa e non pittori della domenica. Lì ha potuto sperimentare e misurarsi con tecniche diverse, tutte apprese con avidità, in grado di completare una predisposizione ed una intenzione narrativa assolutamente indiscutibili.
La vera forza creativa di Secci sta nella sua indipendenza del suo elaborato, che tocca temi sociali e sentimentali, storici e romantici con una leggerezza apparente, figlia però di una grande capacità di sintetizzare bellezza e contenuti in una ammirevole e incontestabile ricerca del gradevole. Perciò quello che ne risulta sono volti, particolari, oggetti e soggetti che non permettono una fugace visione riassuntiva, ma che invitano alla obbligatorietà della occhiata attenta, indagatrice. Solo così ci si rende conto della capacità di Franco Secci di saper miscelare con cautela gli elementi tecnici e quelli artistici al fine di suscitare esattamente quella attenzione maggiore che svela combinazioni di terre, grafite, china, olio ed altre diavolerie riassunte in opere dall’aspetto severo e insieme discreto, silenzioso, intrigante.
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(Accabadora)

Prorompenti di vitalità, di citazioni ed indubbiamente di fascino. Così si legge, per esempio, quella cupezza dei neri che hanno dato vita ad un suo grande lavoro, dedicato ad una figura della antica cultura popolare sarda, l’Accabadora. Era una antica figura femminile, scomparsa, pare, agli inizi del 900, che aveva per compito quello di mettere fine alla sofferenza dei moribondi e dei malati terminali, mai confortata da prove della sua reale esistenza, ma soggetto di film e “contos de forredda” (racconti del focolare). Secci non la ritrae nell’atto di infliggere la morte, ma in quello di esitare davanti ad una chiamata. Il suo volto non è certo quello di femmina crudele, lo sguardo contiene un insolito “no” ma anche un dubbio, una esitazione che ritroveremmo nelle sospensioni e nelle enigmatiche figure della pittura storica, sia italiana che europea, quando i personaggi animavano scene solo apparentemente facili da interpretare. Pare un dipinto di Mattia Preti, contornato da un buio da cui emerge il volto, ma altri particolari, come la argìa (unico ragno velenoso presente in Sardegna) danno al dipinto un tono di ricchezza, magia e sapienza nella composizione.
E così le opere allusive e sferzanti degli ultimi periodi, in cui mancano ai soggetti alcuni frammenti del profilo, come spazi privi di tessere cadute da un mosaico. Dipinti che vivono una vita diversa da quella del consueto lavoro da tema sociale. Amaramente ironico, Secci ci guida alle considerazioni sulla identità, sulla vita stessa e sui problemi del mondo senza abbandonare la rotta del sogno, né quella della digeribile ricercatezza stilistica. Nello stesso modo i suoi ritratti o autoritratti sono inclusi in una aura di abbondanza di tecnica, di sapienza e saggezza. Conoscendo Franco, lui non direbbe mai di averci messo tutta la sua conoscenza, ma solo il necessario. Eppure nelle sue opere c’è tanto, sempre. Vita, glorie, sofferenze.
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Nondimeno sono da dimenticare le sue esperienze da vignettista, vissute con baldanza da esperto e ricche di note allegre e cariche senza eccedere nella misura. Anche lì, Secci ha giocato di fioretto perché provocare la risata sguaiata non è faccenda che lo possa riguardare.
Impressionano le sue carte, ricercate operazioni su volti e soggetti popolari, prevalentemente. Sono opere che lui stesso definisce “defatiganti”, cioè realizzate alla fine di una sessione di lavoro in studio, quando, pensa un po’, l’attenzione può calare. Invece la leggera e puntuta precisione della qualità compositiva prende corpo nelle carte Fabriano dal peso notevole, atte a raccogliere mescole di tecnica e fiammate di autentica classe, evidentemente in lui innata. Il fatto è che con Secci si capisce ancor meglio quella sua magnifica terra, in cui lo spettacolare ed il meraviglioso sono di casa e sono certamente vanto ed insieme elementi silenziati dalla natura della sua gente, notoriamente taciturna o semplicemente discreta. “Fache su surdu, betat’a tontu” (fai il sordo, fingiti tonto) dice l’ultima strofa di Nanneddu meu, il canto di libertà ed appartenenza della tradizione popolare sarda nato dalla poesia di Peppino Mereu, praticamente un inno nazionale.
Sarà dunque per un coinvolgimento personale, per una forma di rispetto e di affettuosa ammirazione per quell’isola che De André definì perfettamente (La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattromila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso), ma credo davvero che sfogliare le pagine della storia artistica di Franco Secci è pratica da disbrigare ascoltando ad occhi chiusi “No potho reposare”, uno struggente canto d’amore che permetterebbe, a mio parere, di percepire a cuor leggero i significati ficcanti della poetica di un bravo e serio artista.
Si, Artista. Con tanto di maiuscola.
Giorgio Barassi