Ritratti d'artista - VITTORIO GREGOTTI

Maestri del '900

VITTORIO GREGOTTI

Tra i massimi architetti contemporanei scomparso il 15 Marzo scorso, all'età di 93 anni.
Con il suo saggio “Contro la fine dell'architettura” già nel 2009 denunciava profeticamente i rischi di un mondo capitalistico globalizzato dove a prevalere è “una forma di potenza che sembra non avere più limiti”. E ciò a partire dall'architettura

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Gregoretti 3 Getty Images
Nel quartiere Bicocca a Milano sorge il teatro Arcimboldi, realizzato nel 1997 - ©Getty Images

Sono passati circa undici anni dall'uscita di "Contro la fine dell'architettura", saggio denuncia di Vittorio Gregotti, uno dei maggiori architetti contemporanei, nonchè intellettuale a tutto tondo. Oggi, purtroppo, questo maestro del '900, nato a Novara il 10 Agosto 1927, non è più con noi, portato via da una polmonite lo scorzo mese di marzo di questo triste anno 2020, funestato dalla terribile pandemia di Coronavirus che tuttora tiene in scacco il mondo intero. Del grande architetto e urbanista piemontese, stimato a livello internazionale, ci rimangono decine di suoi lavori disseminati in tutto il pianeta: interi quartieri urbani, campus, fabbriche, stadi, teatri, palazzi ed edifici pubblici e privati, palazzetti dello sport, chiese e ogni altra opera che l'arte dell'architettura possa concepire. Cui aggiungere moltissimi testi universitari, Gregotti è stato docente in varie Università italiane e straniere, ovvero divulgativi, sia a carattere tecnico che teorico. Il noto professionista fece parte di quel gruppo di intellettuali e teorici, infatti, che animarono l’ancora oggi mitica rivista di architettura, urbanistica e design Casabella, di cui fu anche direttore per un certo periodo di tempo. A testimonianza e in omaggio alla sua levatura professionale, intellettuale e morale, nonche' all'impegno da lui profuso nel corso della sua vita a favore dell'arte e della cultura, riproponiamo sulle pagine dedicate ai Maestri del '900, un'intervista che l'architetto mi rilasciò nel 2009, all'uscita del suo saggio "Contro la fine dell'architettura". Un saggio che è un testamento spirituale e che, ora più che mai, ci risuona in alcuni suoi passaggi come una profezia, laddove, nella sua critica al mondo dell'architettura e dell'arte, allarga lo sguardo alla stessa società contemporanea e ai suoi tanti, troppi, malesseri. «L’architettura va rifondata. Partendo dalla rielaborazione del suo pensiero teorico. Per arrivare a una prassi che la affranchi dall’attuale sudditanza dalle altre arti. E che rischia di dissolverla». E' questo l’appello che Vittorio Gregotti volle lanciare a suo tempo, con il suo libro, dove, nell’aprire il dibattito su questo tema, scagliava parecchie frecce contro la spettacolarizzazione che di questa disciplina hanno fatto molti suoi eminenti colleghi. Le tesi sostenute, in «una riflessione ad alta voce», e supportate da un pensiero forte e da una profonda conoscenza del progettare, suonavano come uno spietato quanto lucido j’accuse nei confronti di una parte di suoi colleghi famosi: gli archistar «modaioli», «che hanno ridotto l’architettura a scandalo a trovata mediatica, decretandone la dissoluzione». Secondo il rigoroso, autorevole e un po’ burbero professionista, con un che di aristocratico nell'aspetto come nel pensiero, sono proprio loro i maggiori responsabili della «liquefazione» dell’antica disciplina del progettare. Ed è a loro che sul suo pamphlet ha diretto con sottigliezza d’analisi gli strali più acuminati della sua polemica, che, tuttavia, non hanno risparmiato nemmeno molti altri protagonisti della società contemporanea.
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È firmata da Gregotti l'opera di riqualificazione del quartiere Bicocca a Milano, che ha occupato un arco di tempo che va dal 1985 al 2005.
Sono compresi gli edifici dell'università e i quartieri residenziali, opere che hanno trasformato completamente la zona - ©Getty Images


Lei, architetto, ha attraversato, con successo ed onori, la storia dell’architettura contemporanea da protagonista. Cosa l’ha spinta a scrivere un testo di severa critica del modo di fare architettura oggi, anche a rischio di attirarsi antipatie?
«È da cinquanta e più anni che scrivo libri, non lo faccio con la pretesa di essere un teorico, ma di chiarirmi con me stesso prima che con agli altri. Il mio intento è sempre stato quello di interrogarmi su dove si stia andando nel mondo dell’architettura e anche nelle arti figurative. Magari qualche critica, qualche antipatia me la sarò pure attirata, ma da parte di una minoranza. Ritengo che gli architetti con cui concordo al mondo ci siano, e che siano anche tanti». 
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Lo stadio di Agadir, in Marocco, progettato a fine anni '90 - ©Getty Images


Lei, però, evidenzia come l’architettura oggi manchi di qualsiasi fondamento proprio, sia a livello teorico, che sociale, etico ed estetico. A tal fine sostiene la necessità di rifondarne le basi. Quali sono le cause che hanno determinato questa situazione?
 «Nel settecento con l’Illuminismo, con la rivoluzione industriale e con la rivoluzione francese, le arti hanno assunto una certa responsabilità nei confronti della società e dei singoli soggetti politici, stabilendo, però, al contempo rispetto allo stato reale delle cose una diversità, una distanza critica. Negli ultimi '30 anni tutto ciò ha ceduto il posto a una forma di strano realismo, un specie di realismo capitalista. Ne è derivato, oltre che un disprezzo per il contesto storico e fisico dentro il quale ci si muove, una tendenza a conferire un eccessivo valore all’originalità, anche quando non è necessaria, alla bizzarria, alla grandezza fisica delle opere come dimostrazione di forza e di capacità che porta a un progresso visto secondo parametri di positività iper-liberali. Non è un caso che tutto questo sia avvenuto proprio nel periodo thatcheriano, cioè quando anche la convinzione complessiva del capitalismo globalizzato è diventata una forma di potenza che sembrava non avere più limiti. Dal punto di vista delle arti questo ha prodotto una specie di comunione tra le diverse discipline artistiche, avente al centro l’idea della multimedialità, intesa, però, come preminenza della comunicazione in relazione al consumo delle cose, il che ha generato un mondo statico, dove quello che conta è lo stile e dove tutto è diventato design e forma. Insomma apparenza e spettacolarizzazione. La mia critica vuole essere una reazione a questo stato di cose, che indica la necessità di ristabilire una differenza tra le diverse identità disciplinari. L’interdisciplinarità è un elemento fondamentale, è ed è stato un elemento di progresso, ma deve implicare che le discipline siano diverse tra loro, altrimenti non esiste possibilità di relazione; se lei ed io siamo la stessa persona non abbiamo niente da dirci».
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Tra le opere più conosciute di Gregotti il centro culturale di Belem a Lisbona ©Getty Images
          

Nel suo libro parla di “liquefazione” dell’architettura. Cosa intende esprimere con questo termine?
«La liquefazione o dissoluzione dell’architettura deriva soprattutto dalla tendenza di mettere insieme le diverse arti, come se l’arte fosse un’unità al di sopra di ciascuna di queste. Invece ognuna ha una propria specificità, i propri strumenti, le proprie pratiche tecniche e artistiche. E quindi anche una propria identità attraverso cui dialogare con le altre. Il rapporto tra l’architettura e la pittura per esempio è sempre stato un rapporto importantissimo nella storia dell’Europa in questi ultimi mille anni. Ma naturalmente nessuna delle due ha tentato di diventare l’altra, invadendone il campo, ognuna ha cercato di lavorare all’interno della propria condizione del fare. Che è quanto oggi non accade. Un altro aspetto negativo è questo appellarsi continuamente alla creatività, che così diventa più che altro una citazione. E nulla più. Invece, io ritengo che nessuno si inventi le cose da zero, questo compito lo lascerei solo al buon Dio. Tutti noi modifichiamo, trasformiamo, cambiamo, aggiungiamo, proponiamo. È questo il ruolo che abbiamo sulla terra. Ovviamente l’opera ha sempre la pretesa di durare, di significare anche al di là dello stesso autore, e in effetti, i lavori artistici detengono questa qualità, parlandoci delle cose anche al di là delle ragioni per cui sono state costruite. Ecco secondo me, fare architettura, significa soprattutto questo».
SICILIA, PALERMO, QUARTIERE ZEN, PALAZZI (Maria Barletta/Fotogramma, PALERMO - 1996-04-09) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate














Di Gregotti anche il controverso progetto del quartiere Zen a Palermo, non completato a dovere, secondo l'architetto, a causa di infiltrazioni mafiose nel corso delle procedure d'appalto
- ©Getty Images 

Lei sostiene che l’aspetto mediatico di dover stupire a tutti i costi ha contagiato il mondo dell’architettura, diventando l’obiettivo ultimo per molti architetti. Cosa intende dire?
 «Sì, credo che ci sia una grande confusione tra i monumenti e l’immagine di marca, le invenzioni linguistiche che si appiattiscono fino a coincidere con i desideri di sorpresa del mercato. Ci diamo tante arie parlando delle tecnologie, ma l’architettura non è un miracolo tecnologico. Quando oggi penso a un miracolo tecnologico penso alle possibilità di allungare la vita o di andar sulla luna, ma non certamente alla tecnologia dell’architettura, che è molto mista e molto complessa. Invece per i gotici era un grande sfida tecnica costruire una cattedrale».
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L'architetto Vittorio Gregotti - ©Getty Images


Lei sostiene che l’assenza di progettualità di cui soffre l’architettura è una vera e propria ideologia sul personalismo, che a sua volta non è altro che il riflesso della società postmoderna, dove il progetto sociale stesso consiste nell’affermazione della sua frantumazione. Con questo ha forse voluto aprire un dibattito che coinvolge anche l’assetto della società e delle sue istituzioni?
«Sì, infatti non possiamo evitare di confrontarci con i problemi della società e di riflesso della politica, in un giudizio che coinvolge anche il fare arte o architettura. Questo confronto con la società costituisce, oserei dire, il contenuto politico dell’architettura. Tutto ciò è inevitabile, è qualcosa da cui non si può sfuggire e nei cui confronti bisogna in qualche modo, attraverso le opere naturalmente, non attraverso le parole, prendere posizione».
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Non era la prima volta che Gregotti si occupava di università: risale al 1973 il progetto
del campus dell'Università della Calabria ad Arcavacata di Rende
- ©Getty Images

Quanto influirà sul futuro dell’architettura l’utilizzo delle tecnoscienze?
«La tecnoscienza certamente ha un’importanza colossale all’interno del mondo contemporaneo. Ma non si può confondere il suo fine con i fini della produzione delle pratiche artistiche. Sono due cose diverse. Bisogna evitare di pensare che il senso del possibile in architettura sia il suo mezzo. Questa è una differenza fondamentale su cui si deve aprire una discussione».
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Nella carriera di Gregotti anche tanti stadi: negli anni '80 realizza il progetto dello stadio olimpico Montjuic a Barcellona, che verrà utilizzato nelle Olimpiadi del 1992
- ©Getty Images

Rispetto all’architettura cosa c’è dietro l’angolo?
«Sono piuttosto pessimista. Personalmente mi sembra di avere troppo poco tempo per fare questa battaglia che ho intrapreso, speriamo che qualcuno la raccolga e la porti avanti».
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Tra le opere a cui Gregotti era più affezionato e tra le sue ultime firme, il teatro lirico di Aix-en-Provence, in Francia (2003) (foto Google Maps) - ©Getty Images